PINO NANO RICORDA IL PAESE NATIO CON UNA LETTERA APERTA AL SINDACO
LETTERA APERTA AL COMUNE DI SANT’ONOFRIO DI PINO NANO
Alla cortese attenzione del Sindaco
Ing. Onofrio Maragò
Sede Municipale Sant’Onofrio
Egregio Signor Sindaco,
leggo che qualche giorno fa avete ricordato la Strage dell’Epifania, e che ricordo ancora perfettamente bene.
Leggo il vostro appello disperato, “perché S. Onofrio possa finalmente tornare un paese normale”, appello che sottoscrivo in pieno, perché è questa la S. Onofrio che da sempre mi porto dentro.
… S. Onofrio è il paese dove sono nato.
Visto da Cosenza, dove ho poi trascorso la mia seconda vita, è già troppo lontano.
Da Roma, dove oggi vivo, è ancora peggio.
È soltanto un punto, quasi invisibile, sulle carte geografiche che non sanno cosa sia la memoria.
Da Toronto, o da New York, da Buenos Aires o da San Paolo, è ancora peggio.
Eppure, è il ricordo personale più dolce che mi porto ancora nel cuore.
S.Onofrio è il paese dei miei ricordi più belli, della mia infanzia, della mia giovinezza, il paese dove ho scoperto che l’amicizia è assolutamente sacra, dove il rispetto dell’uomo è ancora un valore attuale, dove il rapporto con gli altri diventa viscerale, affascinante, unico al mondo, anche a volte coinvolgente e pericoloso.
S.Onofrio è il paese dove da ragazzo ho vissuto le mie emozioni più belle, il paese dei balocchi, dei sogni, delle follie, delle passioni più spontanee, delle prime intemperanze, della mia prima moto, una lambretta rossa che era la anima gemella, e poi la mia prima Diana Citroen decappottabile, e poi ancora la mia prima R4, rossa anche quella, con il cambio in alto sul cruscotto.
Il paese delle tante discordie politiche, ma anche questo serviva a spezzare la monotonia quotidiana di una comunità così periferica e lontana.
Luogo quasi sacro, animato e vissuto dai sentimenti forti.
La gente che ha la fortuna di restare in paese vive insieme la vita di ognuno e degli altri, dalla nascita alla morte.
È un ritrovarsi continuo, uno stare per mano quasi perpetuo, un modo di essere che nessuna sociologia di massa sarà mai in grado di decodificare o spiegare compiutamente.
Per non dimenticare, tanti anni fa ho dato alle stampe un libro, “Cara Sant’Onofrio”, un grande album fotografico della mia gente, un libro fotografico che mi ha fatto tanta compagnia negli gli anni che sono venuti dopo.
Ricordi infiniti, ma anche testimonianze e certezze di un passato che non c’è più, immagini e dettagli che per me -ormai lontano da Sant’Onofrio- si sono cristallizzati per sempre nel cuore e nella mente.
30 anni fa, la strage dell’Epifania.
Ricordo come fosse appena ieri. Fu una terribile pagina di cronaca nera, giorni e giorni di lutto per tutti noi.
Giorni di disperazione e di confusione totale. Giorni di dolori intimi per intere famiglie.
Lo furono anche per quelli che quel giorno come me erano lontani, o non erano presenti in piazza.
Ma in un paesino di 4 mila anime come il mio, il lutto di una famiglia è alla
fine il lutto dell’intera comunità.
Chiunque esso sia, credetemi.
Lo confesso, è una terribile emozione, ricordare quegli anni.
Credo però che sia arrivato il momento di raccontare la storia di questa nostra comunità in maniera diversa da quanto le cronache di questi ultimi anni non abbiano forse mai fatto.
Sia chiaro, nessuna accusa a nessuno.
Ci sono però dei fatti di cronaca nera che suscitano gli appetiti della grande stampa quotidiana, eventi tragici, come lo è una strage come lo è stata quella dell’Epifania, che incuriosiscono i grandi circuiti mediatici.
In questo caso, il rischio più ricorrente -lo riconosco- è quello di preferire o privilegiare la parte più tragica e più romanzabile dell’avvenimento.
Dopo la strage, ne è venuta fuori una immagine della mia gente dalle tinte anche violente, la narrazione ossessiva, schizofrenica e infinita di un “paese governato esclusivamente dalla mafia”, di una comunità rurale in balia del disordine, dell’odio, della violenza, dove poteri occulti e non, hanno messo in ginocchio un’intera comunità, costringendo allora -ricordo- due diversi sindaci alle dimissioni dal proprio incarico.
Si è scritto persino che la mafia aveva vinto a Sant’Onofrio “la sua battaglia contro lo Stato”.
Più volte, dopo queste vicende, in giro per l’Italia e per il mondo, mi è capitato mille volte diverse di dover raccontare il “mio paese natale” e la “mia gente” agli altri, e la domanda che mi sono sentito rivolgere per lunghi anni, e fino alla nausea, era sempre la stessa: “Ma è vero che a S. Onofrio governa la mafia?”.
E soprattutto, “Ma è davvero così pericoloso andare in Calabria”
Ho cercato, mille volte mille, di spiegare che la realtà è invece profondamente diversa, e che la mafia era un dettaglio marginale ma per niente sostanziale del nostro mondo.
O forse, ancora peggio, una “errata concezione della vita”, “un modo di pensare sbagliato”, un “modo essere deprecabile”. Ma tutto quello che era successo in termini negativi attorno alle nostre due Chiese non apparteneva certo in nessuna maniera alla storia più intima del mio paese e della mia gente.
Se uno sbaglia, non possono pagare per lui tutti gli altri che gli stanno intorno.
Sarebbe utile fare le dovute differenze. Non credete?
Non sempre, però, è stato facile convincere i miei interlocutori. Perché negarlo?
Sono stati anni difficili per tutti.
Momenti delicati, carichi di tensione. Anche di paura, lo riconosco.
Chi ha sparato? Chi ha deciso che la strage dovesse avvenire in forma così plateale? Perché così tanta violenza gratuita?
E poi ancora, chi ha piazzato in quegli anni le bombe contro i sindaci del paese?
Nessuno lo ha mai più saputo.
E per conto di chi hanno operato i killers della strage?
Anche questo, un interrogativo rimasto sepolto dal tempo.
Se oggi la storia di Sant’Onofrio è quella che però raccontano i fatti di ogni giorno, allora vuol dire che tutto forse è ritornato finalmente tranquillo come un tempo.
Da troppi anni io ormai non ci abito più, ma quelle pochissime volte che ho la fortuna e il privilegio di tornarci, ritrovo il mio paese, fatto di gente semplice, di contadini laboriosi, di giovani pieni di rispetto verso i più grandi, di donne e spose devote, di madri indaffarate.
Questo è un ricordo forte della mia infanzia.
Un tempo bastava molto poco per sorridere, e sentirsi felici.
La sola attesa di un figlio che rientrava dall’estero era un motivo sufficiente per sorridere alla vita.
Erano, il più delle volte, attese infinite e molto lunghe, anni, e quando alla fine qualcuno poi finalmente rientrava a casa, era davvero una grande festa generale per tutti.
Anche la miseria aveva le sue regole.
Così come le aveva il mondo dell’emigrazione.
In un paese così piccolo come il mio, ci si conosceva un po’ tutti. E questo aiutava a crescere meglio.
Dove si condividevano tante cose insieme, necessità, bisogni, interessi, classi sociali diverse, illusioni, certezze.
Insomma, gioie e dolori di ogni tipo.
La tua vita avveniva tutta qui, in questo limbo ovattato, lontano dal resto del mondo, al sicuro da tutto, difeso dagli altri, e tu diventavi di fatto figlio integrante di una comunità che sapeva essere coriacea e cordiale insieme, affettuosa e diffidente, indispettita e sorniosa, capace di aggredire solo per difendersi dai pericoli esterni, ma disposta anche a grandi slanci umanitari.
Diventavi davvero, e in tutti i sensi, parte viva ed essenziale di questo microcosmo.
I giorni più belli, secondo me, almeno per noi ragazzi, erano i giorni di festa. Il mio paese, allora, aveva solo una piazza “riconosciuta” come tale.
Il concetto di “agorà”, quindi, qui più che altrove, riviveva in quella nostra piazza come in tanti altri piccoli centri del Sud.
La piazza diventava come d’incanto luogo di incontro comune, dove finalmente ci si ritrovava tutti insieme, magari anche di corsa, la sera dopo il lavoro, o la domenica mattina all’uscita della Messa, il pomeriggio alla fine delle partite, o la sera prima di cena, e qualche volta, anche più tardi.
Non ho mai fatto un calcolo preciso dei chilometri percorsi su questo spicchio di asfalto che era la piazza del mio paese, erano le nostre tradizionali “vasche della sera”, ma tra andata e ritorno, moltiplicati per chissà quante volte ogni giorno e per chissà quanti anni, il conto diventerebbe davvero inimmaginabile.
La piazza era davvero tutto.
Era momento di svago, ma era anche luogo fisico di scontri e dibattiti politici.
Era occasione di incontri furtivi, amorosi, sentimentali.
E il più delle volte, la piazza diventava soprattutto il nostro confessionale preferito.
In paesini così piccoli come il mio, almeno allora, non esistevano segreti di nessun tipo.
Esistevano invece alcune certezze, che erano assolute.
Tali erano le confidenze private che, una volta affidate all’amico più caro, facevano poi il giro del paese in men che non si dicesse.
Tutto quello che era tuo, che ti apparteneva, che vivevi all’esterno, che avevi dentro, che pensavi, che ti portavi nel cuore, che coltivavi nella mente, come d’incanto in piazza diventava patrimonio immateriale di tutti gli altri.
Perché tutto questo non era più solo tuo.
Le tue miserie, le tue disgrazie, le tue difficoltà, le tue sconfitte, i tuoi successi, i tuoi rancori, le tue manie di grandezza, persino i tuoi sogni più belli, in piazza, prendevano corpo e diventavano alla fine i sogni di tutti gli altri.
Ho un ricordo indelebile, ma anche molto bello di questa mia piazza Umberto I.
Quando da ragazzo incominciai a sognare di poter diventare da grande un giornalista, perché questo e solo questo avrei voluto fare nella mia vita, e se tornassi indietro rifarei esattamente tutto quello che ho fatto, bene: per liberarmi di questo peso che mi opprimeva da ormai troppo tempo uscii di casa e corsi in piazza, qui trovai uno dei miei amici più cari di quel tempo, Gianni Profiti, e gli confidai quello che da tempo era ormai il mio segreto più intimo.
Ricordo, Gianni mi sorrise, lo fece con la semplicità disarmante che lo contraddistingueva dagli altri, e mi rispose: “Pino, basta incominciare, niente è impossibile”.
Aveva ragione lui, anche se all’inizio non ci credetti più di tanto. I miei amici?
Ne ho avuti tantissimi.
E li ricordo tutti con lo stesso amore di allora. Tutto era comune con loro.
Gli affetti, le disgrazie, le tragedie, i traguardi raggiunti.
Quando in paese qualcuno moriva, la campana suonava a lutto per gran parte del giorno.
Un suono cupo, a martello, incessante.
Poi, il giorno del funerale, era quasi sacro. Lo era per tutti.
Dietro il feretro, immancabilmente ritrovavi tutto il paese.
In processione silenziosa e composta, tutti insieme, fino al vecchio Mulino D’Urzo.
Da qui la bara proseguiva da sola verso il cimitero. Il corteo invece ritornava in paese, per fermarsi di nuovo davanti alla casa del defunto.
Era la maniera più intima per stringersi attorno al dolore della famiglia colpita dal dolore.
Ricordo il funerale di mio padre, il vecchio preside Domenico Nano, e ricordo la mia casa in Via Tre Croci in quei giorni di lutto.
Era piena di gente.
Un vero e proprio fiume umano, incontenibile, commovente, coinvolgente, indimenticabile.
Non finirò mai di dire “Grazie Sant’Onofrio” per averci voluto così bene. Finché vivrò, mi porterò dentro questo senso di riconoscenza verso tutti. Tutto questo oggi mi manca profondamente.
Soprattutto perché ormai mi considero un “apolide”, un’anima senza patria, quasi un fantasma, quasi un “uomo in pena”, senza la mia piazza, senza il “trappeto” dei Greco dove in Via Tre Croci io e mio fratello Ottavio siamo cresciuti giocando alla guerra, senza la “mia” Santa Croce, senza il “mio” cimitero.
Insomma, senza punti di riferimento che oggi valgano davvero il gioco della vita.
Persino mia madre non è più laggiù.
Da quasi vent’anni, mamma è emigrata anche lei al Nord.
Io stesso, per inseguire le mie figlie, ho lasciato tutto, e ho rifatto la valigia. In tanti, e anche in questi miei lunghi anni di lontananza, hanno continuato
a scrivere e a raccontare il mio paese “soggiogato dalla mafia”.
Ricordo che in paese anche le campagne elettorali avevano per noi un loro fascino, e una loro magia.
Quanti comizi elettorali!
Quante scorribande alla ricerca di un voto Campagna per campagna, casolare dopo casolare, casa per casa, stalla per stalla, quante strette di mano, quanti incontri, quanti bicchieri di vino, eppure io ero completamente astemio, e quante speranze condivise con gli altri!
In uno di questi comizi ricordo di aver dato del “mafioso” in pubblico al sindaco uscente di una amministrazione socialcomunista, sono cose che offendono, irripetibili, che non si dicono neanche ai più acerrimi nemici, di cui oggi mi vergogno ancora e di cui non finirò mai di scusarmi, ma il gioco delle parti allora imponeva quel “taglio” e quei toni.
In paese i nostri comizi erano delle vere e proprie “arene” di guerra, ribollivano di emozioni forti, di entusiasmo popolare e collettivo, di rabbia, di riscatto e di rivolta sociale. Dentro c’era tutto e il contrario di tutto.
Era come se la gente che stava dall’altra parte della barricata ti chiedesse il “sangue del nemico”.
Era un modo forse tribale, lo riconosco, di concepire lo scontro politico, ma tutto questo racchiudeva in sé l’anima viva e popolare di questa straordinaria comunità rurale.
E la politica, all’improvviso, diventava anche un “fatto fisico”, e si trasformava così in fenomeno collettivo.
In quegli anni Sant’Onofrio era anche tutto questo.
Lo era quando l’amministrazione comunale era retta dalla lista delle Spighe, e dall’altra parte, in contrapposizione, c’era la lista della Croce.
A sinistra gli uni, a destra gli altri.
Le differenziazioni che si fanno oggi, un tempo non c’erano. O con gli uni o con gli altri.
O con loro, o contro di loro.
Nessuno allora conosceva il senso della mediazione.
“’U partito i vasciu”, “u partito i susu” …
Si diceva così, allora.
E tutto questo, naturalmente, accentuava ancora di più le contrapposizioni tra i due fronti.
Ricordo i nostri due circoli, diventati poi negli anni successivi credo tre o quattro, ma potrei anche sbagliarmi.
Il Circolo di Riunione stava “sui ferri”, sul gradone alto della piazza.
Il Circolo Aurora in basso, lungo la strada.
Sia l’uno che l’altro, facevano a gara per organizzare cose sempre diverse, per accaparrarsi nuovi iscritti, e chi per disgrazia si iscriveva ad entrambi i due Circoli era guardato in cagnesco, dagli uni e dagli altri.
Al Circolo di Riunione di tanto in tanto si ballava anche, si organizzavano dei veglioni incredibili, l’accesso naturalmente non era vietato a nessuno, ma per una strana concezione delle divisioni del paese nessuno mai, iscritto al circolo Aurora, si presentava all’appuntamento del Circolo di Riunione.
Eppure, 40 anni fa, certe occasioni danzanti erano il sale e il pepe della vita. E poi ricordo il giorno della domenica di Pasqua, e l’Affruntata, una sorta di soap opera teatrale che oggi potrebbero tranquillamente realizzare e mettere in scena al Circo Massimo di Roma.
Per l’Affruntata serve molto spazio.
Serve soprattutto gente competente, educata e abituata a questa sorta di rito, i famosi portatori delle statue, non tutti potrebbero farlo, e serve soprattutto tanta gente intorno che corre con te e che fa il tifo perché il “manto nero” che ricopre la statua della Madonna Addolorata, strappato al momento giusto dal vecchio sacrestano del paese, cada esattamente nell’istante in cui le compare davanti Gesù, il figlio risorto.
E qui, come d’incanto, si ritorna prepotentemente alla piazza del paese. Dove la gente si divideva in due parti, formava un corridoio umano al centro della piazza, e dentro, in mezzo, ci correvano i portatori con sulle spalle le statue di Gesù, Giovanni e Maria.
In testa, vestito di bianco e di blu, il mazziere che apriva il corteo e la corsa.
L’Affruntata, non era altro che la rappresentazione scenica dell’incontro sacro di Maria e Gesù Risorto.
Giovanni, l’apostolo, faceva da spola tra l’uno e l’altra, per comunicare il miracolo delle resurrezione alla Madre Addolorata che stenta a crederci.
Erano attimi impercettibili, frenetici, decimi di precisione, calcolati al millesimo, e poi il fragore della banda, i fuochi d’artificio, le donne che piangevano per la commozione, i ragazzi che applaudivano, i più vecchi che si battevano forsennatamente il petto con la mano destra.
Uno spettacolo unico al mondo, difficile da raccontare, e soprattutto da dimenticare.
Un anno l’abbiamo anche “trasferita “ e portata a Toronto, e poi alle porte di Torino.
Sento ancora sulla mia pelle la commozione di migliaia e migliaia di nostri emigrati oltre oceano.
Ma la mia S. Onofrio era soprattutto questo.
La notte di Natale poi, in Chiesa, succedeva davvero di peggio.
A volte la funzione religiosa del fuoco sacro durava anche tre ore, e per noi ragazzi era l’occasione ideale per ritrovarci ancora una volta tutti insieme, a scherzare, giocare, corteggiare, ammiccare, e ricordo ancora che una notte di Natale il povero don Giuseppe Mirenzi ci trovò ammucchiati in sacrestia, a mangiare pane e cioccolato, che qualcuno di noi puntualmente ogni anno recuperava per l’occasione della festa.
Gli anni più importanti della nostra infanzia, sono stati certamente quelli trascorsi a scuola.
La prima sospensione della mia vita a scuola la presi da mio padre.
Era il mio preside, e a Sant’Onofrio era stato lui a fondare la Scuola Media. Immagino che quel giorno, punendo me, lui dovesse o volesse dare un esempio a tutti gli altri.
Ma non ho mai capito il perché, beata gioventù.
Ma non ho mai capito il perché, e non ho mai trovato, neanche da grande, il coraggio di chiedergli perché mai quel giorno mi avesse rimandato a casa.
Ai miei tempi la Scuola media era in Via D’Aloe, accanto alla vecchia Caserma dei Carabinieri.
Era ospitata credo nel palazzo delle sorelle del vecchio sacerdote Marcello, poi anni dopo è stata trasferita davanti al campo sportivo dov’è oggi, e dove ricordo mio padre trascorreva intere e interminabili giornate di lavoro.
Lui a casa non c’era mai.
Se avessi voluto trovarlo, avrei dovuto per forza di cose arrivare laggiù, a scuola, e lo trovavo immancabilmente in compagnia di Mimmo Pileggi e Alfonso Messina, che erano le sue vere costole.
Non finirò mai di ringraziare l’amministrazione comunale del tempo, per averlo voluto ricordare intitolando fisicamente a lui una delle nuove strade all’entrata del Paese.
È stato un grande onore per la mia famiglia, e di cui spero le mie figlie e i miei nipoti vadano fieri per tutta la vita.
Qualche volta, nei momenti di maggiore solitudine, riapro il grande album delle mie fotografie di famiglia, e ritrovo volti indimenticati e indimenticabili.
Gianni, Saro, Franco, Gaetano, Ciccio, Nino, Massimo, Nuccio, Nicola, Nato, Raffaele, Vito, Paolo, Rosario, Totò, Filippo, Antonio, Onofrio…
Sono davvero tanti.
Qualcuno, nel frattempo, ci ha lasciati per sempre.
Amici per la pelle, amici indimenticabili, che considero parte fondamentale della mia vita, perché alcuni di loro tali sono stati davvero.
Ecco, questo era il mio paese. E questa era la mia gente.
Questa è la Sant’Onofrio che mi porto dentro, da 40 anni a questa parte.
- Onofrio è per me la storia fantastica di un paese dove le donne e i bambini erano sacri, dove i contadini erano l’anima più vera di questa nostra grande famiglia, e dove l’aristocrazia di fatto non esisteva, perché si era davvero tutti figli dello stesso Dio.
Ne hanno dette di tutti i colori sul mio paese in questi lunghi anni di mia assenza, ma nessuno ha mai parlato per esempio del mio vecchio compagno di banco e di scuola, che era Tino Febbraro, poi la vita ci ha separati, e che allora -ricordo- non si faceva vedere in giro in piazza per paura che il nostro insegnante di lettere, il professore Giuseppe Lipari- che poi era anche il fratello di mia madre- lo potesse trovare per strada anziché immaginarlo a casa a studiare.
Erano davvero altri tempi.
Mi piacerebbe pensare e immaginare che oggi la realtà non sia molto diversa da allora.
Penserete che con la vecchiaia io sia diventato eccessivamente malinconico, ma se io ne avessi la possibilità, io ritornerei già domani a vivere a S. Onofrio, e lo farei anche di corsa.
Ci torno ormai sempre più raramente purtroppo, invece.
A volte sono mancato anche per lunghi anni. E questo mi pesa moltissimo. Volete sapere cosa faccio quelle poche volte che mi capita di tornarci? Prendetela come una confessione.
Uscito dalla Salerno Reggio Calabria svolto a destra, e poi alla prima traversa a sinistra, dopo la vecchia casa di Melo Mazza, salgo verso il cimitero.
Al cimitero c’è la nostra vecchia cappella di famiglia, ma prima di passare a salutare mio padre, i miei zii, i miei nonni, mi fermo un attimo prima davanti alla tomba di Gianni Profiti.
Gianni Profiti è il ricordo più forte e più struggente che mi lega ancora a Sant’Onofrio.
Gianni non è stato soltanto il mio amico più vero e più caro di tutta una vita.
Gianni per me è stato, soprattutto, anche quando io non vivevo più laggiù, un grande maestro di vita.
Tutto quello che ho imparato dalla mia gente, tutto quello che io ho imparato a dire e a trasmettere alla mia gente, e l’amore immenso che conservo per Sant’Onofrio, tutto questo porta davvero anche la sua firma.
Dovunque tu sia, grazie Gianni mio.
Pino Nano
Roma 9 gennaio 2020